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Velasco Vitali
Si potrebbe iniziare a dire che Il ritratto di Bellano è un’esposizione pubblica “che vuole raccogliere intorno a un paese e a un luogo preciso il meglio delle tensioni civili e artistiche che si stanno sprigionando” sulla sponda orientale del Lago di Como, con particolare attenzione a Bellano. Ma sono parole rubate a Franco Arminio, il teorico della paesologia, scritte per il suo festival “La luna e i calanchi” che si svolge ad Aliano in Lucania, una sorta di manifestazione espansa, dove, senza andare troppo per il sottile e senza intellettualismi, si prova a restituire al paese e al territorio quel ruolo di protagonista e di naturale centro che ne ha fatto nei
secoli un luogo di cooperazione, di lavoro, di istanze civili e di festa, in stretto rapporto con il paesaggio che lo accoglie. Ovvero quello che storicamente sono sempre stati tutti i piccoli centri, almeno fino a quando non è apparso all’orizzonte l’oscuro spettro dello svuotamento e dell’abbandono. Perché, allora, ancora oggi qualcuno continua a scegliere di vivere nei paesi?
Le 1500 (millecinquecento) foto di Carlo Borlenghi sono un’efficace risposta a questo non semplice quesito che aleggia come un fantasma sui borghi della Penisola e fa apparire Bellano come una miracolata sacca di resistenza e fortuna. Carlo, con il suo reportage di sguardi, non ha inteso dare risposte, sarebbe stato presumere troppo: ha piuttosto allestito uno studio, oltre che essersi lui stesso mosso come un ambulante dello scatto “a domicilio”, per raggiungere anche chi, limitato dalle proprie forze, ha voluto comunque rispondere all’appello per “esserci”, per rimarcare silenziosamente con la propria presenza il fine del progetto, quello di vivere in un tempo presente, essere una testimonianza. Qui e ora. Chi si è seduto davanti all’obiettivo, per fermare se stesso nel 2022, ha inteso dire con i propri occhi che questo mondo è esistito, esiste ed esisterà. Borlenghi per tutta risposta ha scattato e chissà che nel contempo non abbia anche immaginato a ciò che potrebbe pensare tra molti anni rivedendo le facce dei bellanesi tra le pagine di questo libro: “Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l’unico luogo del corpo dove, forse, esiste ancora un’anima”.
E sarà proprio così, anche fra molti anni, allorché non solo lui non avrà più bisogno delle parole di Saramago: tutti piuttosto, tutti coloro che hanno posato per lui, che si sono seduti davanti alla sua macchina fotografica; tutti potranno constatare che la natura umana ha un’anima ancora più grande quando è condivisa, che la vita comunitaria si attiva quando è partecipativa. La condizione è metterci la faccia, comprovata certezza che esistiamo.